Tra i compiti dei veterinari igienisti, oltre quello primario della ispezione e vigilanza sulle derrate di origine animale, c’era l’evasione della pletora di reclami che i cittadini presentavano contro gli animali molesti.
In estate era un classico l’invasione di api e di vespe che approfittando del fatto che la famiglia era in vacanza in Sardegna si trasferivano con tanto di regine nel vano delle tapparelle pronte a sbucare fuori furibonde appena le stesse venivano azionate. Altrettanto frequenti erano i reclami contro i galli che obbedendo al loro orologio biologico cominciavano a cantare in ore antelucane convinti che fosse giorno fatto anche se fuori era buio pesto, disturbando, ça va sans dire, il sonno di tutto il vicinato.
Ma il reclamo classico, oserei dire il reclamo per antonomasia, era quello avanzato dagli amministratori contro i condomini rei di detenere nel proprio alloggio un numero spropositato di cani e di gatti.
Qui il veterinario, in veste di pubblico ufficiale e accompagnato da un ispettore d’igiene, si presentava sulla porta e suonava il campanello. Se il problema era rappresentato dai gatti non si sentiva nessun rumore ma un insopportabile tanfo riferibile alle orine dei gatti maschi. Se viceversa la causa del reclamo erano i cani, al suono del campanello seguiva un coro assordante di latrati e di guaiti.
Quando, nella migliore delle ipotesi, perché spesso i proprietari fingevano di non essere in casa, la porta si apriva, si presentava una vecchietta male in arnese, immancabilmente vedova, a chiederci cosa diavolo volessimo. A questo punto il problema non era spiegare il motivo della nostra visita ma piuttosto quello di entrare in casa per verificare de visu le condizioni igieniche dell’alloggio e la fondatezza del reclamo. Questo non potevamo farlo ope legis perché non avevamo nessun mandato per cui cercavamo con le buone maniere di vincere la diffidenza della signora per essere infine invitati ad entrare.
Una volta entrati in casa chiedevamo alla signora se non avesse per caso dei parenti prossimi da contattare e sensibilizzare per ovviare agli inconvenienti igienici più macroscopici mandando qualcuno, verosimilmente una ditta specializzata a ripulire l’alloggio dagli escrementi ormai stratificati. Ma di solito queste signore avevano solo un nipote che non era di nessun aiuto e che si presentava soltanto a fine mese per spillare i soldi della pensione.
Senza scoraggiarci e con molta cautela proponevamo alla signora di consegnare alcuni animali, possibilmente i più vecchi e malandati ai vigilatori cani, che avremmo mandato in seguito, perché fossero ricoverati e curati presso i canili o i gattili della leghe zoofile. Ma era una proposta irricevibile. Del resto ricorrere a un sequestro coatto con una ordinanza del sindaco era come dare il colpo di grazia al cuore malandato della proprietaria che di fronte a tale evento avrebbe reagito con un bell’infarto e allora per noi sarebbero stati guai seri.
Non restava che limitarsi a delle raccomandazioni generiche, ex iuvantibus, perché l’alloggio fosse tenuto in condizioni igieniche decenti e non desse più adito a reclami. In altre parole il nostro sopralluogo era stato del tutto inutile.
Sempre a proposito di cani e di gatti presenti in soprannumero negli alloggi capitava talvolta che la proprietaria fosse ricoverata d’urgenza in ospedale e quindi bisognava intervenire perché gli animali custoditi in casa non morissero di fame e di sete. In questo genere di interventi il veterinario era l’uomo di punta di un commando composto da due vigilatori cani armati di guinzagli e museruole per i cani o di retino e gabbie per i gatti, più due agenti della vigilanza interna dell’ospedale che avevano il compito specifico di impedirci di frugare nel cassettone o nei materassi alla ricerca dell’immancabile tesoro accumulato negli anni dai vecchi solitari. Il loro motto era : fidarsi è bene con quel che segue.
Le condizioni igieniche di questi alloggi erano indescrivibili, tali da superare ogni più fosca immaginazione. Gli animali, cani o gatti che fossero, ormai inselvatichiti dal lungo isolamento, diventavano delle piccole belve e si difendevano con quanta forza avevano in corpo.
Ma fra tutti i reclami ce ne è uno che ricordo in modo particolare anche perché ha messo a dura prova la mia innata capacità di risolvere i casi più complicati. La segnalazione era arrivata per telefono da parte dei dipendenti del Comune distaccati presso il cimitero di Staglieno Qui una signora, rimasta da poco vedova, si era lamentata perché sulla tomba del marito trovava sempre gli escrementi di un gatto. La tomba era ancora in terra battuta in attesa del marmista e quindi era verosimile che un gatto, poco rispettoso del suo dolore, la usasse come lettiera.
Detto fatto fu deciso di piazzare nelle vicinanze della tomba una gabbia trappola con un’ esca alla quale nessun gatto può resistere e cioè un bel mucchietto di acciughe fresche. E infatti il giorno successivo arrivò puntuale la telefonata da Staglieno perchè il gatto era stato catturato e quindi bisognava mandare qualcuno a ritirarlo.
Ricordo che per pura curiosità andai di persona a ritirare la gabbia. La gabbia, a differenza di quelle moderne in lega leggera, era un manufatto molto pesante e a maglie fitte per cui non era facile guardarvi dentro. Ma aguzzando lo sguardo ( a quei tempi ci vedevo benissimo ) vidi qualcosa che mi lasciò perplesso. Un corpo lungo e sinuoso di un bel grigio uniforme e una testa molto piccola con due occhi tondi e ravvicinati. Passai in rassegna le mie reminiscenze zoologiche e arrivai alla conclusione che il gatto profanatore di tombe non era un gatto ma una faina. Direi anzi un bell’esemplare di faina in ottime condizioni di salute e di nutrizione. Ma il problema era tutt’altro che risolto perché ne nasceva un altro : che farne?
Era fuori dubbio che la faina appartenesse alla fauna protetta e quindi non solo non poteva essere soppressa ma doveva essere reinserita al più presto in un habitat adeguato alle sue caratteristiche biologiche. Ma quale era l’ente competente per casi del genere? Ai posteri l’ardua sentenza.
Pensai subito alle Guardie Forestali ma mi risposero in modo piuttosto risentito che nel loro mansionario nessun capitolo o comma parlava di faine. Mi rivolsi allora alla Regione ma quando con grande fatica riuscii a superare il filtro del centralino telefonico mi risposero che avevano ben altro da fare che pensare alle faine.
A questo punto andando per esclusione la soluzione mi parve chiara. La competenza non poteva essere che della Provincia visto che quest’ente legifera in materia di caccia. Ma anche qui nessuno sapeva cosa fare.
Piuttosto demoralizzato mi rivolsi al mio direttore di servizio che suggerì di liberare la faina in aperta campagna. Ottimamente pensai, così la faina comincia a frequentare i pollai della zona finchè un contadino più affezionato ai suoi polli che alla fauna protetta non le scarichi addosso la doppietta.
La soluzione, quella vera, non poteva essere che una sola : rimettere la faina dove era stata catturata. Ma c’era un problema. Passare dal cancello principale con la faina significava fare una figura della stessa materia che aveva reso celebre Cambronne. Bisognava introdurla nel cimitero ma di soppiatto.
Ricordavo che nella cinta muraria c’era un varco per consentire il passaggio degli autotreni per un lavoro in corso e proprio lì liberai la faina che si immerse nella vegetazione come un pesce nell’acqua.
Il bello fu che dopo alcuni giorni gli addetti al cimitero telefonarono per comunicarci i ringraziamenti della signora. Evidentemente la faina, la cui astuzia non per niente è proverbiale, aveva pensato che la cosa migliore per lei era cambiare lettiera.