Abu-Sittah

ippodromoL’ippodromo tripolino della Abu-Sittah aveva sicuramente visto tempi migliori durante gli anni ruggenti del bieco colonialismo quando le corse al galoppo erano un evento mondano e l’occasione per sfoggiare le ultime novità della moda. Sulle tribune sedevano signore impellicciate, ufficiali in alta uniforme mentre il servizio d’ordine era affidato agli zaptie’,i carabinieri libici, avvolti nei loro pittoreschi burnus azzurri, infiocchettati e bordati di rosso con i fregi dell’Arma.

Negli anni 60 nulla di questo fastoso cerimoniale era sopravvissuto e l’attività dell’ippodromo proseguiva stancamente con qualche corsa al galoppo riservata ai cavalli locali e qualche esibizione dello squadrone di rappresentanza della Polizia. Solo in quelle occasioni faceva la sua comparsa la banda musicale della Polizia di Stato, di chiara ispirazione scozzese, con tamburi e cornamuse.

Il pubblico era composto da gente comune vestita normalmente. Solo il medico di servizio, il dottor Fiammenghi, già ufficiale medico della Folgore ad El Alamein, sfoggiava un volto roseo perfettamente rasato e un completo grigio tortora con un garofano rosso all’occhiello. Quanto al servizio veterinario era presente sul posto una ambulanza per quadrupedi e un medico veterinario con un assistente . Il veterinario ( che nella fattispecie ero io ) era molto meno elegante del dottor Fiammenghi ma era l’unico disponibile e perciò bisognava accontentarsi.

I cavalieri della Polizia, o almeno quelli più esperti, si esibivano nel numero del cavallo a terra che consisteva nel fare sdraiare il cavallo sul fianco nascondendolo dietro un rilievo del terreno per poi farlo rialzare di colpo col cavaliere già in sella. Era un esercizio che avevo visto fare anche a Roma, in Piazza di Siena, dai cavalieri dell’Arma.

Tra gli eventi che facevano capo all’ippodromo c’era anche la visita annuale di tutti i cavalli che in città tiravano le caratteristiche carrozzelle. In quella circostanza i cavalli venivano portati davanti alla commissione perfettamente ferrati e strigliati e con gli zoccoli lucidati con una miscela di olio motore e paglia bruciata. Anche le carrozzelle erano tirate a lucido per l’occasione con i colori ravvivati, i sonagli e gli ottoni lucidati a specchio. Tutto questo impegno non serviva per fare buona impressione sulla commissione tecnica presieduta dal medico veterinario ma piuttosto per fare morire di invidia i cocchieri rivali. I libici avevano di queste debolezze e in certe occasioni si comportavano come bambini.

Oltre a questi eventi che potremmo definire a carattere sportivo o istituzionale l’ippodromo ospitava una scuola di equitazione. Non un’alta scuola con cavalli andalusi o lipizzani ma piuttosto una scuola a carattere familiare rivolta per lo più a un pubblico infantile e gestita in prima persona da un ufficiale di cavalleria in pensione, il colonnello Diaz. Ora non è dato sapere se questo colonnello Diaz fosse parente o meno del suo più famoso omonimo, quello che aveva firmato il bollettino della vittoria, ma certamente l’origine partenopea era la stessa.

Il colonnello dirigeva la sua scuola con piglio militaresco e i cavalli, alcuni vecchissimi e docili come agnellini, erano sempre in perfette condizioni di salute e di nutrizione Come medico veterinario e amico personale del colonnello non ricordo di essere mai intervenuto se non per un episodio di Encefalomielite Equina o Malattia di Borna. Uno dei cavalli presentava i sintomi caratteristici della malattia con prensione incompleta degli alimenti e fili d’erba pendenti dalla bocca. Ma c’era soprattutto un atteggiamento che può essere considerato patognomonico della malattia e cioè incuneare la testa in un angolo del box e rimanere così per ore forse alla ricerca di un punto di riferimento per la mente malata.

Una volta fatta la diagnosi l’animale era stato soppresso e il box accuratamente lavato e disinfettato per evitare il propagarsi del contagio.

Ad ogni modo la piccola scuola funzionava a dovere ed era utilissima perché gli allievi erano tutti bimbi alle prime esperienze che si avvicinavano così al mondo dell’ippica. Non per questo Il colonnello era meno severo verso i suoi allievi e pretendeva un abbigliamento sempre curato, una corretta posizione a cavallo con il busto eretto , una altrettanto corretta postura delle mani sulle briglie, tanto che alla fine della lezione gli allievi più piccoli piagnucolavano.

Da un punto di vista economico la scuola si autofinanziava con le lezioni, senza contributi statali ( ma anche senza tasse ) e se gli introiti erano insufficienti subentrava il colonnello con la sua pensione. Ad accudire i cavalli bastava un solo garzone con un modesto salario non complicato da contributi o rivendicazioni sindacali. In altre parole per il colonnello era una situazione ideale per trascorrere il tempo libero all’aria aperta e restare sempre a contatto dei suoi amati cavalli.

Tutto questo finché un brutto giorno, come un fulmine a ciel sereno, il colonnello fu colpito da un ictus cerebrale. Fu per giorni tra la vita e la morte ma alla fine sopravvisse. Ma non era più lui. Una metà del corpo era paralizzata e anche la parola era irrimediabilmente compromessa. Provò a riprendere le lezioni ma farfugliava e i bambini non lo capivano. Era venuto il momento che tutti i militari aborriscono : quello dell’addio alle armi.

Mi chiamò una mattina e con le lacrime agli occhi mi disse che era venuto nella determinazione di far sopprimere tutti i cavalli e che si affidava alla mia umanità per una soppressione rapida e indolore e una sepoltura adeguata. Io rimasi senza parole. La cosa mi sembrava mostruosa e lo pregai di trovare un’altra soluzione. Ma non c’erano altre soluzioni, le aveva vagliate tutte. Nessuno avrebbe rilevato la scuola e quanto ai cavalli erano tutti talmente vecchi da non essere accettati nemmeno come dono. Quanto al mattatoio, al di la del fatto che una soluzione del genere avrebbe fatto inorridire il colonnello, restava il fatto che la Libia era un paese islamico e pertanto il consumo della carne equina era precluso.

Ci pensai per giorni e alla fine mi convinsi che quella proposta dal colonnello era l’unica soluzione possibile soprattutto per risparmiare ai cavalli inutili sofferenze con improvvisati e maldisposti proprietari. I libici non erano mai teneri coi loro animali e a maggior ragione non lo sarebbero stati con dei cavalli che non offrivano nessuna possibilità di reddito.

Superati gli scrupoli umanitari rimaneva il problema tecnico logistico. Sopprimere 10 cavalli contemporaneamente usando presidi eutanasici era un’impresa non semplice da mettere in atto.. Oggi non lo farei per nessun motivo ma a quei tempi ero giovane e poi non potevo esimermi dal farlo essendo l’unico veterinario in possesso dei requisiti tecnici e delle credenziali governative.

Per prima cosa mi premurai di individuare il sito dove interrare i cavalli e mi misi in contatto con degli amici che gestivano una azienda agricola nelle vicinanze. Questi non ebbero nessuna difficoltà ad indicarmi una radura dove poteva essere scavata una trincea lunga una trentina di metri e profonda tre con l’aiuto di una scavatrice.

Mi assicurai anche la disponibilità della autoambulanza per quadrupedi munita per l’occasione di una gru autoservente appartenente al Dipartimento Veterinario dal quale io stesso dipendevo. Nessuno si preoccupò di accertare se nel mio caso c’era o meno un conflitto di interessi. I libici erano immuni da queste cretinate e poi era sempre un servizio pubblico mentre Io ero un veterinario ufficiale e rispondevo in prima persona del mio operato.

Più difficile si rivelò invece la ricerca del prodotto. All’epoca per fini eutanasici si usava una soluzione satura di barbiturici, l’Eutathal, che veniva commercializzata da una ditta inglese in flaconi da 50 ml. Era un prodotto eccellente in quanto induceva immediatamente il sonno e quindi la morte per sovradosaggio senza gemiti o contrazioni. Era senz’altro migliore del prodotto attualmente in uso che ha effetti curaro simili e non è esente da difetti. Calcolai che per ogni cavallo fossero necessari almeno due flaconi e quindi 20 flaconi in tutto che mi procurai non senza difficoltà tramite prenotazione presso il deposito della ditta fornitrice.

Nel giorno prestabilito il colonnello Diaz si accomiatò dai suoi cavalli accarezzandoli a lungo uno per uno. Li amava veramente come figli. Quindi andò via zoppicando più del solito e io rimasi solo col garzone. Pensai che non era opportuno fare uscire i cavalli dai box per non innervosirli e che la cosa migliore fosse sopprimerli sul posto. Il garzone li teneva fermi e li accarezzava sulle narici come aveva fatto tante volte. I cavalli erano tranquilli e non facevano nessun movimento per sottrarsi al loro destino. A metà del primo flacone si abbandonavano al suolo senza emettere un gemito o fare un movimento. L’infusione continuava a terra fino a completare il contenuto di due flaconi. Quindi passavo al cavallo successivo. La cosa era più agevole di quanto pensassi. Quando tutti i cavalli furono a terra mi assicurai che tutti avessero ricevuto l’intera dose di Eutathal e li auscultai attentamente col fonendoscopio uno per uno ma non rilevai nessun palpito di vita.

L’ambulanza per quadrupedi aveva iniziato a fare i suoi viaggi portando due cavalli per volta ma era evidente che per quel giorno sarebbe stato impossibile interrarli. Ci avremmo pensato con calma il giorno dopo.

Al mattino invece fui svegliato bruscamente da una telefonata piuttosto allarmata da parte di uno dei proprietari dell’azienda. In poche parole mi invitava a raggiungerlo al più presto perché c’erano delle novità. Provai a chiedere che tipo di novità ci fossero e per tutta risposta mi disse :’vieni e lo vedrai’. Lungo la strada mi lambiccai il cervello senza trovare una risposta plausibile.

Una volta raggiunta l’azienda fui sorpreso nel vedere un gruppo di operai libici discutere animatamente attorno ai corpi esanimi dei cavalli. Poi, guardando meglio, capii il motivo di tanta agitazione. Era successo semplicemente questo : due dei cavalli morti erano risuscitati durante la notte e ora pascolavano tranquillamente. Ci rimasi male. Da un punto di vista professionale era veramente un grave insuccesso. Apparentemente c’era stato un macroscopico errore di dosaggio ma la spiegazione era molto più semplice: non tutti gli animali si comportano allo stesso modo nei confronti di un farmaco. I due cavalli, forse più robusti degli altri, si erano addormentati sotto l’effetto dei barbiturici, il battito del cuore era diventato impercettibile tanto da non essere rilevato dal fonendoscopio ma il cuore non si era fermato. Poi, una volta smaltito l’anestetico il cuore aveva ripreso vigore e i cavalli si erano svegliati come dopo una normale anestesia e giustamente erano affamati.

E ora? Chiese il mio amico. Dovrò sopprimerli di nuovo, dissi, anche se la cosa mi ripugna. Il colonnello Diaz non mi ha lasciato margini discrezionali. Ci fu un ondeggiamento nella piccola folla che osservava la scena. Poi si fece avanti uno degli operai libici e con tono perentorio mi disse : dottore non farlo, non puoi andare contro quello che è scritto. ‘Haram alec’ aggiunse, cioè faresti peccato.

Ci mancava anche il Corano a complicare le cose già di per sé abbastanza ingarbugliate, ma tutto sommato la cosa non mi dispiaceva. I due cavalli sembravano felici e pascolavano sotto il sole. Di sopprimerli per la seconda volta proprio non me la sentivo. Così chiesi al mio amico se poteva tenere i cavalli in azienda e mi rispose che per non inimicarsi gli operai non poteva fare altrimenti. E li farai lavorare? Chiesi. Certo, rispose, lavoreranno come gli altri ma nessuno farà loro del male anche perché, aggiunse malizioso, sono protetti dal destino. E allora, dissi, chiudiamola qui, ma mi raccomando che il colonnello non venga mai a saperlo perché sai com’è fatto, sarebbe capace di venire qui e uccidere i cavalli con la pistola d’ordinanza.